Uccise un poliziotto Terrorista in libertà
FIRENZE - La giustizia si era dimenticata di lui. E ci sono voluti 22 anni per processarlo. Così Vito Biancorosso, ieri, ha ripetuto in aula che la mattina del 20 gennaio del 1978 fece parte del commando che attaccò il vecchio carcere di Firenze, le Murate, per liberare i compagni di Prima Linea. Rimase ucciso un poliziotto, Fausto Dionisi, e un altro agente fu ferito. Ma dopo due ore di dibattimento con rito abbreviato, il giudice Antonio Crivelli ha emesso una sentenza che chiude definitivamente il conto fra l’ex terrorista e la giustizia: quel reato commesso nell’Italia degli anni di piombo è prescritto. Perché sono passati più di vent’anni. Dimenticanza e pastoie burocratiche hanno cancellato tutto. Omicidio compreso. Per Biancorosso, che aveva preso parte all’azione con Giovanni Camagni, Susanna Ronconi e Gianni Maggi, non ci saranno né carcere, né altri processi. E non avranno risarcimenti Mariella e Jessica, la moglie e la figlia di Fausto Dionisi. Biancorosso aveva offerto loro un assegno di 15 milioni, ma l’avvocato Giuseppe Cardillo, legale della famiglia, l’ha rifiutato: «Sentimento e dolore non cadono in prescrizione dopo vent’anni». Ma perché il processo non è stato fatto prima? Semplice: per lunghissimo tempo l’enorme fascicolo intestato a «Vito Biancorosso, nato a Jau, Brasile, il 20 agosto 1958, residente a Torino» è rimasto fermo negli uffici giudiziari. Quel fascicolo ha «dormito» soprattutto dal 1990 al dicembre del 1998, quando lo portarono nella stanza del pm Gabriele Mazzotta, che istruì la pratica e poi chiese il rinvio a giudizio. Nel giugno ’99 interrogò Biancorosso che ammise la piena responsabilità, disse di essersi dissociato dal terrorismo nel 1983 e aiutò a riscostruire una storia giudiziaria, la sua, che fa cascare le braccia. Specie quando si viene a sapere che nel 1981, dopo l’arresto in Francia, l’estradizione venne chiesta per una sfilza di reati successivi, mentre per l’assalto alle Murate, fu inviata solo un’informazione di garanzia. Nel 1983, Biancorosso venne condannato a 20 anni per rapine, un omicidio, un sequestro di persona. In appello la condanna venne ridotta a 10 anni e 5 mesi. Ma nel ’90 il «piellino» uscì di prigione. E da quel momento la giustizia smise di cercarlo. E’ stata vera dimenticanza? In aula, ieri, Biancorosso ha detto di essere un uomo cambiato e pentito. E’ padre di una bimba di un anno e lavora come camionista nell’azienda di famiglia. L’avvocato Giampaolo Zancan, che l’ha difeso, ha detto: «All’epoca Biancorosso aveva 19 anni. Oggi è un altro. Non si può processare un uomo dopo 22 anni».
di Sandro Bennucci