Lo Stato siamo noi
di MIGUEL GOTOR
SI CELEBRA oggi il quarto anniversario del “Giorno della memoria” per le vittime del terrorismo, fortemente voluto dal presidente della Repubblica all’inizio del suo mandato. L’appuntamento di quest’anno costituisce un “omaggio particolare ai servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la loro lealtà alle istituzioni repubblicane”. Anzitutto i magistrati, caduti per “difendere la legalità democratica” come ha scritto il Capo dello Stato Giorgio Napolitano.
Il presidente della Repubblica ricorda che la sua decisione di commemorare tali personalità “costituisce anche una risposta all’ignobile provocazione del manifesto affisso nei giorni scorsi a Milano, innanzitutto una intollerabile offesa alla memoria di tutte le vittime delle Br, magistrati e non”, e invoca “senso della misura e della responsabilità da parte di tutti”. Senso della misura che, ancora una volta, è stato oltrepassato proprio in queste ore dal presidente del Consiglio, il quale ha ribadito che “i pm di Milano sono un cancro da estirpare” e, in un comizio a Olbia, ha denunciato che in Italia sarebbe in atto una “guerra civile” contro di lui e il suo partito. Tutto ciò avviene, come ha giustamente sottolineato il presidente della Camera, Gianfranco Fini, alla vigilia del 9 maggio, in cui si vuole onorare quel sangue versato in difesa della democrazia e della libera convivenza civile.
I magistrati e non solo, perché servitori dello Stato sono anche le forze dell’ordine
che oggi sono commemorate insieme con loro al Quirinale. Una fra tante, il poliziotto Fausto Dionisi, ucciso nel 1978 a Firenze da un commando di Prima Linea. Lo sguardo di sua moglie Mariella non l’ho ancora dimenticato: nei suoi occhi non c’era odio, ma dolore, non vendetta, ma smarrimento, non rabbia ma umiliazione. Era il 26 giugno 2008, presso la sede della Regione Toscana, durante un seminario su “Il caso Moro: riconciliare l’Italia”. Il marito, quando morì, aveva 24 anni, lei 22, una figlia di 2 anni da crescere da sola: una vita rubata, una famiglia distrutta. Per sempre.
L’indignazione della donna derivava dal fatto che Sergio D’Elia, condannato per concorso nell’omicidio di suo marito a 25 anni di carcere, di cui ne aveva scontati dodici, non solo nel 2006, grazie alla nuova legge elettorale, era stato “nominato” deputato nelle file della Rosa nel pugno, ma l’assemblea l’aveva addirittura eletto segretario della presidenza dell’Aula di Montecitorio. Una scelta politica inopportuna e una prova di insensibilità istituzionale perché un ex dirigente di Prima Linea, efferato gruppo terroristico, non avrebbe dovuto essere proposto e votato dai suoi colleghi a quella carica, un gesto destinato inevitabilmente a trasformarsi in un’ulteriore umiliazione per i familiari delle sue vittime. E così era avvenuto.
Anche questo episodio ricorda quanto sia importante il “Giorno della memoria”. Riconciliare e ricordare, ma anche risarcire una ferita che c’è stata in passato fra cittadini e istituzioni. Qualunque discorso di riconciliazione ha il dovere di passare da questa stazione, partire da una simile assunzione di responsabilità, farsi carico di un disagio e di un silenzio che troppo a lungo hanno gravato su queste storie spesso cadute nell’oblio. È importante questa cerimonia per dare carne e volto, e dunque un senso, all’espressione “servitore dello Stato”, che altrimenti rischierebbe di suonare retorica. Essa ci ricorda che lo Stato siamo noi, con le nostre responsabilità, ma anche con le nostre colpevoli indifferenze: il “Nostro Stato” si intitolava la rubrica di Carlo Casalegno, ucciso dalle Br nel 1977, ed è giusto non dimenticarlo mai.
La vicenda di Dionisi è rappresentativa della storia di centinaia di familiari, molto spesso emigrati dal sud al nord della penisola alla ricerca di un lavoro: vedove, padri, madri, fratelli, figli, che si sono trovati all’improvviso soli e spaesati in una città distante dai loro affetti di sempre, abbandonati col fardello del proprio dolore. È una folta schiera di morti anonimi che non hanno neppure il risarcimento postumo di un prestigio riconosciuto al loro congiunto dalla pubblica opinione. Sono la maggioranza: non sempre i familiari di costoro hanno gli strumenti intellettuali, la formazione culturale e la forza psicologica necessari per arrivare a un’elaborazione del lutto in grado di trasformarsi in energia costruttiva e quindi sono ancora più indifesi e fragili, ma ciò non può trasformarsi in una colpa.
La loro storia fa capire che, anche nel dolore e nella sua elaborazione, l’appartenenza di classe e la provenienza sociale contano, continuando a marcare un invisibile confine tra garantiti e non garantiti. Forse è questo l’aspetto più bello e misconosciuto della cerimonia del 9 maggio: una fotografia, uno straordinario spaccato di tutti i volti e le storie dell’Italia repubblicana che viene riunita dal Capo dello Stato e mostra la sua anima degna e autenticamente popolare. Almeno per un giorno quel confine scompare e tutti sono ricordati con la stessa intensità. Di fronte a questa esperienza, emotivamente forte per chi ha avuto la possibilità di parteciparvi, le polemiche sulla ritualizzazione della cerimonia e sull’uso pubblico del dolore delle vittime appaiono fuori fuoco: ora esiste uno spazio istituzionale che prima non c’era, a disposizione di ognuno per essere riempito con una riflessione la cui qualità è determinata dalla sensibilità civile e politica con la quale i diversi soggetti preferiscono partecipare a questo appuntamento. E le affermazioni di Berlusconi, volte a racimolare un pugno di voti, risultano incredibilmente inadeguate al ruolo istituzionale rivestito, tanto che hanno suscitato lo smarcamento anche di Bossi. In questi giorni “la Repubblica” ha opportunamente dedicato a ognuno dei magistrati caduti durante gli anni del terrorismo un ritratto biografico per costruire un punto tra passato e presente, e ricordare il profilo civile di questa mobilitazione. Una scelta che le parole del presidente del Consiglio rendono non solo attuale, ma necessaria perché questo Paese avrebbe oggi bisogno come non mai di unità e non di divisione, di moderazione e non di pulsioni destabilizzanti. Questo Paese e il nostro Stato.
(La Repubblica 9 maggio 2011)